CASSINO – Via Frasseto è una piccola strada nascosta nel verde della campagna cassinate situata ad un kilometro e mezzo dall’incrocio tra via San Pasquale e via Lungofiume Madonna di Loreto. In questa parte della città praticamente “invisibile” e sconosciuta ai più, accanto ad un’antica fontana c’è un vecchio edificio abbandonato che un tempo ospitava un piccolo asilo di quartiere. Negli ultimi mesi questo immobile a dir poco fatiscente ha dato un tetto alla famiglia di Italo Commendale, ex camionista 50enne di Cassino che la scorsa settimana, su queste colonne, ha raccontato la drammatica storia della sua famiglia: dopo aver perso il lavoro e dopo uno spaventoso incidente, lui, sua moglie ed i suoi tre figli hanno vissuto giorno e notte, per un mese di fila e forse più, sui treni della tratta Cassino-Roma, scendendo dalla carrozza una volta giunti nella Capitale e risalendo subito dopo sul primo convoglio diretto alla città martire. Una vita d’ inferno che però non ha intaccato in alcun modo l’unità di una famiglia che nonostante la povertà assoluta in cui versa da almeno due anni è rimasta attaccata, con grande tenacia (ed un certo romanticismo) alla speranza di un cambiamento che per loro può passare solo «dal lavoro». Nonostante il dramma umano e le condizioni disperate in cui versa la famiglia Commendale, Italo e suo figlio Angelo hanno ribadito, con una dignità davvero invidiabile, ieri come pochi giorni fa, che «di essere poveri non ci si deve vergognare» e che tutto ciò che chiedono «è una occupazione, qualunque essa sia». «Vogliamo dimostrare a chi ci ha chiuso le porte in faccia – ha ricordato Angelo, il figlio più grande, considerato un piccolo “maestro” del restauro – che abbiamo delle abilità, delle capacità e che non vogliamo campare alle spalle di nessuno. Molti cassinati oggi tentano (e spesso ci riescono) di approfittare dei servizi sociali del comune per bollette, case e quant’altro. Non è questo il nostro caso. Oggi abitiamo qui, in questa topaia – ha aggiunto – ma fino a ieri, per modo di dire, vivevamo nella normalità, come tante altre famiglie. Ovviamente prima che la perdita del lavoro di mio padre facesse crollare tutte le nostre certezze». Dopo essere rimasti a parlare sull’uscio di casa per qualche minuto Angelo ci invita ad entrare. Doli, la moglie di Italo, è visibilmente imbarazzata per la visita, ma il capofamiglia e suo figlio maggiore aprono tranquillamente le porte della cucina, del bagno e della camera da letto. Quest’ultima, come tutti gli ambienti dell’edificio, è completamente invasa dalla muffa e dall’umidità. Da pochi giorni, grazie all’intervento di un cittadino e di una operatrice di un ente caritatevole evidentemente colpiti dalla loro storia, questa famiglia può dormire su due materassi. Fino alla scorsa settimana tutti e cinque riposavano a terra, sopra una coperta, su di un pavimento vecchio, deteriorato e gelido. La stanza all’occorrenza funge anche da sala da pranzo: la loro tavola è un banco di una scuola dell’infanzia e le loro sedie dei vasi da giardino rovesciati con dei cuscini appoggiati sopra. Le perdite e le infiltrazioni d’acqua sono impossibili da contare. La cucina è messa un po’ meglio, ma le ragnatele sono ovunque e le mura si sgretolano con la sola “imposizione delle mani”. Il “piano cottura” è una stufa in ghisa in voga forse mezzo secolo fa, sulla cui sommità asciugano canovacci e tovaglie. «Ci si riscalda come si può mentre mia moglie cucina» tiene a precisare Italo. Ma è il bagno l’ambiente sicuramente messo peggio dell’intero immobile: al posto delle asciugamani ci sono delle t-shirt che evidentemente andavano strette a qualcuno dei ragazzi; le pareti sono fradicie ed intaccate pesantemente dall’umidità e sul soffitto sono ancora visibili segni di una demolizione lasciata a metà. A terra, vicino al Wc, un paio di secchi utilizzati per lavarsi e al centro del gabinetto, un pezzo di tubo collegato ad un rubinetto è il loro sciacquone di fortuna. «Chiunque può ridursi in questa maniera – ricorda ancora Italo – chiunque può perdere il lavoro e finire sotto i ponti. Noi siamo finiti prima in mezzo ad una strada, poi su un treno, infine in questo immobile pubblico abbandonato. Voglio rafforzare un concetto – ha insistito -: non abbiamo bisogno di carità ma di un posto di lavoro per me o per uno dei miei ragazzi. Una volta raggiunto questo scopo affitteremo un’abitazione e torneremo a vivere come prima. Fino a quel momento cammineremo comunque a testa alta, consci di aver fatto tutto il possibile per tutelare la nostra dignità e per restare indipendenti. Ed umani».
Fonte e Foto: L’Inchiesta